domenica 7 febbraio 2010

Ho perso le parole

Ho perso le parole
eppure ce le avevo qua un annetto fa...

Non parla più di cambiamento, non insiste più con la speranza, non si accanisce più con i sogni.
Il presidente è giù: un anno di governo ha cambiato molte cose. Perché adesso a Washington c’è un clima diverso dal 20 gennaio 2009. Allora c’era voglia di leggenda alimentata dalla promessa di stravolgere tutto: le regole di Washington, l’immagine della nazione, i rapporti con il resto del mondo. Dov’è l’ottimismo ora? Dove sono quelle parole? Il presidente oratore ha smarrito il testo della vita. Vede l’America oggi a un giro completo di calendario completato e la scopre diversa: ha sostituito la speranza con la delusione. L’incubo della crisi economica e della disoccupazione ha offuscato l’immagine di Obama e fatto precipitare le sua popolarità.
Oggi un americano su due non lo voterebbe più.
Obama resta un fenomenale personaggio mediatico, capace di creare aspettative e attese, di calamitare l’attenzione mondiale su qualunque cosa faccia o dica.
Il problema è sempre stato uno: basta questo a diventare un grande presidente? Solo che il problema adesso è più grande: non c’è più una campagna elettorale, non c’è più lo slancio emotivo, non c’è più la rincorsa di un sogno. Ora c’è la vita, c’è la politica, c’è la realtà.
Perché Obama per governare da presidente ha fatto quello che avrebbero fatto anche altri: aumentato le truppe in Afghanistan, ha deciso di aprire il fronte con lo Yemen, ha elogiato la guerra giusta mentre andava a ritirare il Nobel per la pace, ha rinviato la chiusura di Guantanamo.
Quattro cose giuste in un anno pieno di insuccessi.
Così, una per una tutte le partite sono finite male: il tentativo di dialogo con l’Iran è fallito, i gesti di buona volontà verso la Cina hanno fatto gridare al tradimento gli attivisti per i diritti umani e non hanno portato alcun beneficio, la rinuncia allo scudo missilistico ha soddisfatto la Russia, ma senza evidenti contropartite. L’idea che l’Afghanistan possa diventare il Vietnam di Obama terrorizza l’amministrazione, il partito, l’America e il mondo. Obama ha vinto un Nobel per la pace imbarazzante, ma per fortuna quando l’ha ritirato ha ricordato che esiste una «guerra giusta».

Anche la teorica distensione col mondo islamico è stata un naufragio: il presidente s’è ritrovato a Natale con un terrorista che voleva far saltare in aria un volo e con la consapevolezza di avere un buco enorme nell’apparato di sicurezza nazionale. Non vi sono dubbi che Obama, durante il suo primo anno alla Casa Bianca, abbia seminato molto. Ma adesso, in questo difficile 2010, è giunto per lui il momento di raccogliere. I bei discorsi non basteranno più. Il bello è che se dovesse passare, la nuova Sanità non sarebbe comunque quella che il presidente desiderava. È una via di mezzo, una legge spuria, un compromesso uscito dai mille condizionamenti del Congresso. Se passerà.
Ha paura, Obama: a novembre scorso, quando i democratici hanno perso le poltrone di governatore di Virginia e New Jersey il presidente ha fatto campagna elettorale e ha perso.
Adesso non è più come il 20 gennaio 2009: adesso ci vuole poco per mettere in difficoltà il presidente. Cioè esattamente nelle condizioni in cui è ora a un anno appena dall’inizio della sua avventura.
Obama è infelice. Obama è in crisi. Si sente quando parla:
«Vi sono momenti in cui sento che tutti i miei sforzi sono vani e i mutamenti sono così dolorosamente lenti da sollevare dubbi anche in me. Ma dopo il duro inverno arriva sempre la primavera».
Il sole dopo il buio, certo. Però la notte non è finita.

Ho perso le parole
può darsi che abbia perso solo le mie bugie...


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