domenica 25 gennaio 2009

Restaurazione comunista italiana

Cinque, Nove, Undici.
Ieri Nichi Vendola ha annunciato formalmente il suo distacco da Rifondazione comunista, e la nascita di una nuova formazione, Rps, Rifondazione per la sinistra. Così i partiti comunisti nel nostro Paese, quelli più noti che son stati in Parlamento e aspirano a tornare almeno a Strasburgo in primavera, salgono a cinque. Ma in realtà nove, contando i meno noti di tradizione trotskista o maoista, che han comunque presentato il loro simbolo, con tanto di falce e martello, alle elezioni dell’anno scorso. E aggiungendo al conto anche quelli che tengono l’ideale nel cuore ma stanno ugualmente all’estrema sinistra, Sole che ride e Sinistra democratica, eccoci a undici.

Ma vi sembra un paese normale, radicato in Europa e nell’Occidente, quello dove i partiti comunisti fioriscono e si moltiplicano, invece di scomparire? Nemmeno in Africa e in America Latina, come nel Belpaese. C’è un posto al mondo - oltre Cina, Cuba e Corea del Nord ove son ben saldati al potere e ai privilegi - dove dirsi o esser stati comunisti sia un vanto e un merito? In ogni altro Paese civile e democratico il comunismo «realizzato» è colpa e vergogna, nessuno si sognerebbe di giustificare le stragi compiute da Lenin, da Trotsky, da Stalin e pure da Breznev.

Amen, è andata così. Ben arrivato anche il nuovo partito comunista, che si presenterà alle elezioni europee strappando almeno un paio di eurodeputati. Ma è davvero un paradosso e un’assurdità, contare - e mantenere - undici partiti di estrema sinistra di cui ben nove dichiaratamente «comunisti»? A ben pensarci, mica tanto. Almeno per l’unico Paese al mondo dove i postcomunisti sono riusciti ad andare al governo dopo la caduta del Muro di Berlino. E dove un postcomunista che aveva benedetto i carrarmati sovietici a Budapest è diventato presidente della Repubblica.

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